14 ottobre 2012

Il calcio come specchio del paese. Siamo davvero così?


Ricordate i Campionati Europei appena trascorsi? L’inizio stentato, i rigori con l’Inghilterra, la vittoria con la Germania poi la tranvata in finale contro la Spagna. Come sempre il calcio ci ha offerto un punto di osservazione “sociologico” - unico nel panorama mondiale - sul nostro Paese.
La prima domanda che mi viene in mente è se abbiamo tutti capito, davvero, come dice Prandelli, che l’Italia del pallone rappresenta l’Italia reale, un paese vecchio con idee vecchie. Ricordate la pareggite del girone di qualificazione, quelle partite tanto fumo e poco arrosto? Lo scoprirsi improvvisamente non attrezzati per correre tutti i novanta minuti come se fosse improvvisamente una sorpresa che le partite durino 90’ se non di più... L’Italia (sul campo) che ha pareggiato le prime due partite 1-1 è un’Italia che ha avuto delle opportunità incredibili e che non le ha sfruttate. E come non paragonare questa Italia del calcio all’Italia che vediamo tutti i giorni davanti ai nostri occhi, al bar, per strada, in vacanza, in azienda? Un paese pieno di opportunità misteriosamente non raccolte o raccolte male, impregnata della filosofia “prendi i soldi e scappa” (e provate a pensare quanto stride questo concetto con l’ ‘inspire a generation’ delle Olimpiadi di Londra. Pensiamo, as esempio, al turismo. Tempo fa ad un convegno un rappresentante del Ministero disse che l'Italia è lo stato che possiede, al mondo, il più ampio patrimonio artistico. Sosteneva che nel nostro paese si trova circa il 40% circa del patrimonio artistico e culturale mondiale. Fece una pausa poi, improvvisa, una domanda: “Eppure, quando qualcuno ha un figlio a cui proprio non va di studiare, a quale scuola superiore pensa di mandarlo?” La risposta della platea, quasi unanime, fu: l’Istituto Alberghiero! 
E lo stesso avviene alle aziende quando cercano Talento. E, frustrate, ne trovano poco. È come se tutti ci lamentassimo di non poter raccogliere frutti da un albero che, però, nessuno si è mai ricordato di piantare. 
Tornando agli Europei e al calcio ad un certo punto il tema era stato che bisognava sperare che non ci facessero ‘il biscotto’, che qualcun altro nel nostro girone non ci fregasse mettendosi d’accordo per combinare un certo risultato che ci avrebbe buttato fuori comunque. Ed eccoci qua piombare tutti quanti nella cultura della lamentela e dell’emergenza, anche nel pallone. Ma non bastava l’emergenza quotidiana in cui viviamo da un po’? È come se preferissimo dimostrare di essere bravi a mandare le tende, dopo, piuttosto che a costruire bene i le case prima. Da anni continua questa italica caratteristica di dare la responsabilità di quello che ci succede, sempre all’esterno, sempre agli altri. Durante la finale addirittura il commentatore si lamentava - notando l’evidente calo fisico dei giocatori - delle troppe partite ravvicinate. Come fosse una sorpresa, come se non si sapesse prima (avete presente quelli che il 24 dicembre, ancora senza regali, si stupiscono che il giorno dopo è Natale?).
E diventiamo automaticamente dipendenti, se non succubi, di questo modo di pensare, come se i colpevoli fossero sempre altri, come se le responsabilità non spettassero mai a noi. Come se il potersi trovare in una situazione favorevole non fosse mai frutto del merito ma sempre solo della fortuna sfacciata, del caso, di chi si conosce... 
Ecco, credo di aver capito che nel nostro paese abbiamo un gigantesco problema con il ‘merito’, non lo riteniamo praticamente possibile, troppo difficile da misurare, e anche quando è evidente non lo accettiamo. Il nostro gigantesco ego personale, che si tramuta in un SuperEgo nazional-collettivo ci impedisce di ammettere che gli altri siano più bravi di noi (quanti bonus, aumenti salariali, piani di crescita in azienda vediamo passati sotto banco per non urtare sensibilità, invece che evidenziati per essere assunti a modello?). No, se gli altri ce la fanno è perché sono stati aiutati, forse - anzi sicuramente - è più facile aggrapparsi a questa convinzione che immaginare che prima del successo c’è l’impegno, la fatica, la resilienza. E non è forse sintomo di maturità questa? 
Tutto attorno, sempre più spesso, lascia pensare che è come se avessimo deciso di abdicare e di non essere più padroni del nostro destino, preferendo diventare sudditi speranzosi che altri non decidano di scegliere il loro tornaconto piuttosto che il nostro sacrificio. 
Pare che negli ultimi vent’anni è stato come se avessimo dormito e improvvisamente, ci siamo svegliati sull’orlo di un baratro che, come in un film di Indiana Jones, si allarga sotto i nostri piedi, inseguendoci, mentre tentiamo di scappare. Eppure di gente in gamba ne vedo tanta attorno a me, bisogna solo trovare il coraggio di uscire fuori da una mentalità da mediocri, da congetture da perdenti, e ritrovare orgoglio e coraggio con la consapevolezza che Balotelli non è Obama.                              

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