31 ottobre 2010

Cosa vogliono i Job Seekers Italiani? Quello che vuole l'Italia.


Visto che è tempo di Halloween e una palla di cristallo per leggere i trend fa sempre comodo averla (soprattutto quando si parla di lavoro) vi parlo volentieri di una presentazione a cui ho assistito con piacere (ben fatto Nicola ;-)) su chi sono e cosa cercano i Job Seekers Italiani. 

Leggendo bene tra i dati (lo so questa è la parte noiosa, ma i dati quando ci sono e quando sono significativi come questi, vale la pena mettersi a darci un'occhiata), si nota come nella popolazione dei giovani, sia quelli appartenenti alla generazione Y - età media 25 anni, per capirci - sia i loro colleghi della Generazione X - età media 30 anni - sia scarsissima sia la propensione alla flessibilità lavorativa che la propensione alla mobilità.
Ora, questi dati non dovrebbero sorprendono più di tanto né l'HR esperto né, tanto meno, il cacciatore di teste abituato a veder franare candidature interessanti per ruoli eccezionali solo perché la location "era lontana da casa...", ma l'aspetto che colpisce di più è che rispetto al mondo, rispetto alla cultura globale che sta facendo della flessibilità la sua bandiera e della mobilità cross-country il suo credo, l'Italia dei giovani pare impermeabile.
A pensarci bene, magari, questa fotografia è figlia di una Italia che si mostra come un paese rallentato, e che per questo sta accumulando dei gravissimi ritardi in Europa e nel mondo a causa di un sistema politico la cui inefficacia è sotto gli occhi di tutti (provate solo un attimo a pensare, voi, di gestire un'azienda nello stesso modo in cui vediamo gestire la cosa pubblica e ditemi quanto tempo resistereste sul ponte di comando prima di essere gentilmente invitati alla porta). Un'Italia pubblica che alle parole di Marchionne alla trasmissione di Fazio domenica scorsa, ha solo saputo produrre una reazione comune bollando l'intervento come provocatorio, grave o, peggio, pesante. Eppure non ce n'è stato uno, ma uno solo dico, che abbia sentito dentro di sé forte l'istinto di alzarsi e di urlare a tutti: "ragazzi tiriamoci su le maniche!" Perché davanti al problema concreto di una nazione che è a l 118° posto su 139 per efficienza della lavoro ed al 48° posto per competitività industriale, se non ci diamo una mossa forse qui son guai.Di quelli seri.
E allora forse questi giovani hanno bisogno di molto più aiuto di quanto la sola lettura di questa slide possa far pensare.


24 ottobre 2010

Il Personal Branding & l'HR

Il Personal Branding è il processo attraverso il quale le persone e le loro carriere vengono concepite come brand, come marchi completi di promesse di performance e risultati. E se fino ad oggi tutte le tecniche di sviluppo personale si basavano sul cosiddetto self-improvement, il concetto di personal branding suggerisce invece che il successo personale è una funzione anche del self-packaging. Questo include, ma non è ovviamente limitato, il nostro corpo, il modo in cui ci vestiamo, la nostra apparenza e (finalmente...) le conoscenze e/o competenze contenute nel 'prodotto' che siamo, con il risultato finale che il tutto porta all'impressione personale che la comunità più estesa ha di noi. Il primo a parlarne è stato Tom Peters nel 1997, in un libro culto, "The brand called You" (http://www.fastcompany.com/magazine/10/brandyou.html) all'interno del quale Peters suggeriva che, qualsiasi sia la mia estrazione sociale o età, io sono di fatto il presidente, amministratore delegato e responsabile Marketing dell’azienda chiamata “Io Spa”. La mia reputazione e la mia credibilità si definiscono tramite la qualità del mio lavoro attuale e passato e determinano la qualità del mio lavoro futuro. 
Da allora l'argomento ha continuato a svilupparsi. Ma attenzione, non è solo di reputazione che stiamo parlando, il contesto qui è molto più ampio. In un certo senso la reputazione, in quanto valutazione sociale che un gruppo ha verso una persona, per quanto quella persona debba lavorare sodo per costruirsela, è qualcosa rispetto alla quale si finisce per essere passivi, mentre il personal branding va oltre, in quanto ha in sé fortissimo l'aspetto promozionale. 
Ora, cosa se ne può fare l'HR del personal branding? Tantissimo.
Sappiamo tutti che la 'nostra' funzione gode a malapena di un buon nome tra i suoi stessi membri, e se andiamo fuori dal ristretto cerchio degli HR non sono poche le critiche. Per non parlare poi della visibilità, tutto sommato limitata, di cui la funzione gode. Pensateci un attimo, quando è che oggi che HR diventa visibile nel nostro paese? O quando si tratta di grandi o piccole ristrutturazioni (vedi il caso Fiat a Melfi e tutti gli altri piccoli casi di cui danno notizia i giornali locali), oppure, se ci va bene, si parla di noi nelle poche occasioni in cui le aziende assumono, ed allora ecco che si accendono i riflettori. Ma tra questi due estremi il buio.
Cosa fare allora? Beh, proviamo innanzitutto, come si fa quando si ha una marca, un brand, a disposizione, a segmentare il mercato di riferimento della funzione HR. Chi è il nostro cliente? 
C'è quello interno, ovvero l'azienda stessa dove si opera, ok, poi c'è il mondo esterno, quello delle Istituzioni, quello sindacale, quello dei consulenti, va bene, ma c'è un mercato più vasto? Certamente si, c'è il Mondo là fuori! E se internamente la credibilità l'HR in gamba se la costruisce accompagnando e guidando il business nel presente e verso il futuro, esternamente, quanto più siamo capaci di lavorare verso la credibilità e la professionalità della funzione, tanto più sale il nostro gradimento nei clienti.
E se è vero, come è vero, che il futuro è radioso per quelli di noi che sanno gestire le proprie carriere nello stesso modo in cui le aziende gestiscono il loro business, noi per primi dobbiamo essere assolutamente consapevoli di cosa abbiamo da offrire come funzione e con quali benefici, dobbiamo impegnarci nell'aumentare la comunicazione all'esterno, fare in modo che il nostro brand sia sempre in prima linea, ed assicurarci di saper sempre mantenere quello che il nostro brand promette. 
Facendo attenzione alle insidie dell'Ego, il nostro peggior nemico in questo momento.

17 ottobre 2010

The Secret Agent




Spesso prendo di mira candidati sui generis, impreparati o con un comportamento non proprio adeguato quando applicato ad un processo di selezione. Ma che dire quando ad avere tutte queste caratteristiche assieme sono delle aziende? Un paio di esempi real life, as usual.
L'Azienda N°1 il candidato ideale lo incontrano attraverso la prima shortlist, ad aprile. È evidente a tutti che sia quello giusto "ma già che ci siamo vediamone altri..", in totale viene screenato tutto il mercato delle aziende che hanno quella figura (30 aziende o giù di li), vengono contattati tutti i 50 potenziali candidati, ed alla fine ne vengono presentati i circa 15 che presentano quelle caratteristiche richieste. Siamo a maggio. L'azienda in questione che fa? Tentenna, cincischia, perde tempo ed alla fine - arriviamo a settembre - fa una proposta salariale al "candidato ideale", che per il ruolo dovrebbe spostarsi a Milano, alla fine quasi alla pari. Risultato, ovvio, lui rifiuta. Chi ha perso? Entrambi.  
L'azienda N°2 invece ha una bellissima posizione, che è nuova per lei, deve quindi andare a prenderla sul mercato. Trova il candidato per lei giusto, Dirigente a 90k, come da brief, ma...poiché gli verrebbe proposto, per "dimostrare la sua reale volontà di entrare in azienda e  di credere nel progetto" di iniziare come Quadro a 60k, "e poi se vali ti facciamo crescere.." alla fine - d'accordo con l'HR non trasmettiamo questo messaggio - lui si ferma e noi andiamo avanti con la ricerca. 
Certo, una differenza tra queste due aziende c'è: la prima è la classica supermultinazionale dove l'HR si è reso leggermente complice, non guidando la linea ma, al contrario, essendone guidata. Nella seconda, più imprenditoriale, l'HR è vittima. 
Come le vogliamo chiamare queste realtà? Qualcuno ha suggerito "aziende diversamente HR".