9 maggio 2011

Il campionato finisce...e la metafora del calcio viene sempre in aiuto al Manager.

Pubblico con piacere questo articolo scritto dopo la figuraccia agli ultimi mondiali della nostra nazionale, in considerazione che il campionato di calcio si avvia alla fine ed è sempre frutto di spunti interessanti per il manager. 
Se è vero com'è vero, che le sconfitte di oggi possono diventare le vittorie di domani nel momento in cui servono ad imparare qualcosa, la squadra di Lippi eliminata come ultima del girone, ed alcuni suoi meccanismi di cui siamo stati spettatori, possono essere utilizzati come un'ottima metafora di quello che è il nostro paese oggi. Soprattutto se guardato dal punto di vista manageriale.  
Iniziamo da quelli che non sono stati convocati. Sia chiaro, ogni manager ha il diritto/dovere di scegliersi la propria squadra, e siccome l'Italia è terra di 60 milioni di Commissari Tecnici non entro neanche sullo scivolosissimo terreno di chi doveva essere portato in Sudafrica  e chi no. Ma una cosa mi ha colpito  dei commenti degli esclusi: tutti, ma proprio tutti, hanno dichiarato che non hanno la più pallida idea del perché non sono stati chiamati. Non gli è stato detto nulla, non sono stati chiamati e basta. Ora questo ci dice cosa? 
Ci conferma che il meccanismo del feedback è ancora uno sconosciuto nella nostra cultura. Che questo strumento fa un'enorme fatica a entrare nella nostra quotidianità come elemento da utilizzare per la crescita delle risorse.  Il punto non è, ripeto, chi si sceglie o chi si lascia a casa, ma bensì il fatto che se, a coloro che non sono stati selezionati ma che comunque fanno parte del patrimonio di risorse che il paese ha a disposizione (vogliamo esagerare? chiamiamolo il pool dei nostri talenti) non viene spiegato cosa gli manca e, quindi, cosa possono/devono fare per colmare il gap che gli consentirebbe di entrare nel giro più importante, inevitabilmente priviamo questo talento della possibilità di maturare e, magari, sbocciare domani, nel nome della miopia del risultato di oggi, e contemporaneamente l'organizzazione più ampia (in questo caso il Paese) della possibilità di disporre di un pool ampio di risorse qualificate da cui pescare nel tempo. Non basta dire "ci sarà tempo", perché equivale a procrastinare lavandosene le mani e rimandando il problema a chi verrà.
Altro punto, Lippi ha sempre detto di credere nella squadra, alle volte ha anche cercato di utilizzare la creazione  di un nemico esterno (ora i giornalisti, ora i politici) per cementare il gruppo e creargli una sorta di voglia di rivalsa personale alla stregua del migliore "ora ti faccio vedere chi sono io!". Ma la realtà è che alla fine ha usato solo il cuore (e certo gli va dato atto della generosità di questo gesto) ma ha completamente trascurato il cervello. La passione da sola, senza un'analisi razionale ed approfondita, non basta mai, ci fa continuare ad essere o troppo romantici, o troppo annebbiati, o troppo testardi o, peggio, chiusi. E qui si riconosce un altro dei punti deboli di alcuni dei nostri manager: pensare che basti dire che siamo un Paese di creativi, la nostra riluttanza alla pianificazione, la quasi incapacità di fissare per sé e per gli altri degli obiettivi e il quasi fastidio di controllarli strada facendo. 
Un esempio? Siamo onesti, per quanti dei nostri manager, ancora oggi, il performance management è un sano rompimento di scatole? E da dove parte il performance management se non dal fissare obiettivi concreti e misurabili?  Come diceva un mio vecchio amico: se non sai dove andare qualsiasi strada va bene...
Terzo punto. La regolare e costante sottovalutazione dell'avversario, del mondo esterno, ancora peggio se di tratta di mondo nuovo. Nuova Zelanda, Slovacchia, Paraguay (le squadre del girone che abbiamo incontrato e che ci hanno fermato) dalla maggior parte del paese considerati alla stregua di pellegrini rispetto a noi "che abbiamo il blasone" e che invece, con una maggiore organizzazione ci hanno fatto fare, regolarmente, la figura dei fessi. E questo modo di fare è tipico di quella cultura che porta molti di noi ad abbracciare quella scuola di pensiero che ha trovato un giorno la sua essenza in uno striscione esposto allo stadio: "Quando voi eravate ancora sugli alberi, noi eravamo già froci!." Appunto.
Quarto e ultimo punto e che, in qualche modo, chiude il cerchio con il primo: questo continuo fare affidamento sui vecchi, su quelli fidati, sui collaudati, sui docili, su quelli che si pensa di poter controllare, salvo poi accorgersi nel momento in cui la realtà chiama (perché la realtà chiama sempre prima o poi...) che questi non si reggono in piedi, che non tengono il passo di avversari più giovani e  affamati. La nostra riluttanza endemica a relegare i giovani a ruoli di eterna comparsa.
Certo, le fotografie, o per lo meno questo tipo di fotografie, servono a qualcosa nel momento in cui indicano una strada diversa verso un futuro migliore, diversamente, sono polemica, e quindi a noi che abbiamo il privilegio, l'onore e l'onere di poter influire positivamente, come uomini e donne di Risorse Umane, sul management delle nostre azienda, spetta il compito di prendere la leadership su questi temi, e aiutare, spingere, stimolare, guidare il cambiamento.
Perché se le conseguenze delle mancanze del "sistema Lippi" (passatemi il neologismo) sono immediatamente visibili e dolorose come una ferita che sanguina, le conseguenze di questo stesso tipo di superficialità su di un sistema paese o su di una azienda sono più sotterranee e pericolose, ed agiscono sotto pelle, minando le basi della crescita, proprio come fa un tumore.
E se da una parte c'è solo in gioco la quinta stella su di una maglietta da calcio azzurra, dall'altra c'è in gioco il nostro presente e, vista la velocità a cui va il mondo di oggi, il futuro prossimo nostro e dei nostri figli. 
Perché, come disse il Barbaro Brenno riscuotendo il suo riscatto dai Romani, "vae victis". Guai ai vinti. Alè!